Il numero è aggiornato a qualche giorno fa: 80 è il numero di suicidi in carcere (dato Polizia penitenziaria). Come birilli che cadono, ogni giorno in carcere, persone perdono la vita, nel senso che non se la ritrovano più fino a dichiarare quella percezione compiendo -per proprie mani- l’ultimo gesto sul loro corpo fisico. Dico perdere la vita anziché suicidarsi perché sento una differenza sottile e insieme profonda nelle due espressioni. Suicidarsi è un termine più asettico, da descrizione, un verbo che trova posto in tanti resoconti, statistiche e documenti ufficiali. Perdere la vita invece è un’espressione più ampia, sono addirittura tre parole, è anche solo più lunga da pronunciare…come se l’ultima speranza potesse provare a farsi spazio e vincere anche rivalendosi su quella minuscola unità di tempo in più che potrebbe far recedere e salvarsi. Queste 80 persone, in carcere, perdendo la vita, hanno svuotato il proprio corpo fisico di quell’esistenza che ormai, in prima persona, nel loro percepire, probabilmente non sentivano già più, come scivolata via, cercata magari fin sotto le suole eppure come inghiottita in un nulla di cui nemmeno vedevano il buco sotto i piedi.
Raccogliere testimonianze di persone che sono state a un soffio da quel gesto ma che sono ancora con noi a parlarne, mi fa credere con una convinzione enorme che ci sia sempre la possibilità di attendere quell’ultimo attimo dell’ultimo attimo in cui si senta di aver agganciato chissà quale mano, di udire l’impercettibile voce che dice: “Adesso scendo in fondo al pozzo dove sei caduto, ti carico sulle spalle e ti riporto su con me!”.
Quanto detto finora può valere sul tema sia in carcere che fuori e in questi giorni per fortuna, marcando una non indifferenza, molti intellettuali, giornalisti ed esperti hanno parlato dell’argomento proponendo riflessioni di grande interesse.
Io vorrei condividere ora una riflessione personale. Chissà se in qualcuno di noi, anche solo per un millisecondo, anche solo a volte, transita quella sensazione di poco peso che è come se ci facesse dire che vale meno un suicidio in carcere che un suicidio fuori.
La confidenza possiamo serbarla tra noi e noi, mica dobbiamo sbandierarla. Fermarci a notarla però dice qualcosa se lo facciamo con la delicatezza di chi vuole davvero investigare anche dentro di sé senza ipocrisie.
Cosa mi accade se capita quel pensiero? Divento il giudice che non sono? Questa persona magari stava già scontando una pena quindi un giudice aveva già svolto il suo compito allora perché lo faccio anch’io? A quale mia esigenza risponde?
Lasciando che questi tanti interrogativi fluiscano in noi, torniamo alle 80 luci che improvvisamente si spengono. Chi sono? No, non chi sono gli 80, chi sono gli 800, gli 8000 perché al minimo di questi numeri parliamo. Come non pensare infatti alle esistenze che orbitano intorno a ognuno di loro. Come non immaginare che dietro ogni vita ci siano storie che si annidano ad altre, tante pance in subbuglio, di figli, compagne e compagni di vita che gestiscono sé con sofferenza doppia o tripla. Quanto può essere riempita di bruttura la bolla della famiglia di origine di una qualunque di queste 80 persone? E questo vale anche per chi legami familiari e radici territoriali non ha. Se facciamo leva sulla nostra immaginazione possiamo vederla quell’unione di fili, l’incastro di vite collegate tra loro e indipendentemente dal fatto che non si abbiano figli o partner.
Siamo energeticamente tutti parte di incroci, trame e orditi che esistono come struttura solo se si incrociano, se ogni parte compone l’insieme.
E allora, quando accade che qualcuno perde la vita, avverto come se si aprisse una voragine energetica con ripercussioni su molte altre vite lasciando tracce, invisibili forse ai più, ma che segnano la storia collettiva di tante persone. Lo immagino come uno choc che si genera, come se venisse meno un tassello nella coscienza collettiva di quel tutto che, da lì in poi, riporterà una ferita prima e auspicabilmente “solo” una cicatrice poi. Immagino che sia come se servisse del tempo, dello spazio, del fluire di chissà che per cominciare di nuovo in un diverso assetto a prendere vita dopo averla persa.
Propongo il mio sentire oggi, avvalorato da nulla, solo per condividere che questa idea di comunità dinamica e interagente mi fa vedere ognuna di quelle vite perse come un mondo perso, ferito, malconcio che merita almeno il nostro fermarci di un istante.
Gli interrogativi delle domande senza risposta, e tutto questo fluire di umanità, auspico che possano scorrere nel fiume della nostra compassione che, certo, scalda il cuore ma, in una prospettiva più ampia, connette tutti e mette tutti in grado di riconoscere a ogni “anima detenuta” di essere vista.
18 sono le volte in più con cui ci si toglie la vita in carcere rispetto a fuori.
[Luci a Kathmandu – l’immagine è offerta cortesemente da Barbara Sini]