Nei giorni scorsi abbiamo parlato a lungo con i partecipanti ai nostri gruppi di quanto accaduto.
Grazie a Sabrina, Marilena e Laura che hanno raccolto alcune testimonianze.
Sabrina
Martedì ho proposto ai partecipanti del gruppo di Consapevolezza del 7° reparto dell’Istituto penitenziario di Milano-Bollate di parlare di Giulia e di tutte quelle donne e persone vittime di odio e violenza. Il 7° reparto (quello dei cosiddetti “protetti”) ospita prevalentemente le persone che stanno scontando una pena legata ad abusi e azioni violente nei confronti di donne e bambini. Il gruppo, tuttavia, è composto anche da persone detenute per reati “comuni” e, solitamente, questa categorizzazione rischia di far emergere nette posizioni giudicanti volte a deresponsabilizzarsi rispetto alla gravità dei gesti compiuti. Ritengo importante fare questa premessa per far comprendere il punto di vista da cui ho proposto di partire per la condivisione di pensieri, stati d’animo e riflessioni. Ho chiesto di provare a mettersi in una posizione non giudicante (“è ovvio che sono azioni sbagliate e inaccettabili”) ma provare a dirci “qual è la responsabilità sociale di ognuno di noi rispetto a quanto sta accadendo”? Ho chiesto di provare a non puntare il dito sui “mostri” ma di volgere quel dito ognuno verso di sé domandandosi “chi sono o sono state le vittime delle mie azioni”?
Partendo da questa posizione non giudicante e, indipendentemente dalla riconosciuta gravità giuridica di un’azione criminosa o dalla percezione di azioni socialmente accettabili, abbiamo dato avvio a un dialogo allargato, durato più di due ore, con una domanda posta da G.: “ma come nasce quella rabbia?”
E ancora S.: “si poteva evitare?”
Cito alcuni stralci della condivisione avvenuta e che ben fanno comprendere come il gruppo ha accolto la proposta riflessiva, evitando di cadere, come riferisce il Prof. Ceretti in un’intervista rilasciata di recente proprio sul caso di Giulia, nella tentazione di “trovare semplificazioni necessarie per far abbassare il nostro livello di angoscia di fronte a fatti che in questo momento non sono spiegabili”.
G. dice: “occorre sviluppare comprensione nei confronti delle persone che stanno male”. Allo stesso tempo, si e ci chiede: “è sempre possibile rendersi conto se qualcuno intorno a noi sta male?” e prosegue raccontando di una personale esperienza di abbandono che non è stata compresa da nessuno.
G.: “occorre sviluppare maggiore solidarietà come strumento salvifico a disposizione della società, di ogni singola persona verso l’altro”.
A.: “le persone non vanno lasciate da sole; oggi abbiamo gli strumenti per aiutare/aiutarci ma non è sempre facile capire o accettare che abbiamo bisogno di aiuto o accompagnare qualcuno a questa consapevolezza”.
La riflessione condivisa si è poi sviluppata sul tema della genitorialità vista come una, tra le tante, dimensioni sociali in cui si possono sviluppare relazioni ed emozioni complesse e difficili.
G.: “i genitori devono essere presenti; non devono giustificare ogni azione dei propri figli, devono dare delle regole ed educare al rispetto”.
A.: “chi subisce violenza genera a sua volta violenza … io sono cresciuto con le botte di mia mamma e più me le dava e più io peggioravo nelle mie azioni prima violente e poi criminose. Ovviamente non do la colpa solo a lei, anche il contesto in cui sono cresciuto ha fatto la sua parte, ma, di certo, quelle botte ricevute non hanno contribuito in modo positivo”.
A.: ”bisogna VEDERE i propri figli … come bisogna VEDERE le altre persone … bisogna dialogare e comprendere quando qualcuno sta male”.
C.: ”occorre pazienza”. Quella pazienza che, sempre citando l’intervista rilasciata dal Pof. Ceretti, “è necessaria per cercare risposte sensate. Non si può conoscere subito la persona che agisce atti violenti, bisogna essere prudenti e pazienti per comprendere come si è formato il loro mondo interno … per non costruire risposte volte soltanto a noi per dirci o che è un mostro o che non ha nessuna responsabilità perché la colpa sta fuori”.
A. si e ci domanda: ”come si fa ad accettare un rifiuto?” – “I genitori possono dare degli strumenti per riuscire a farlo?”
Chiedo al gruppo di provare ad ascoltarsi e dire cosa hanno provato quando/se si sono sentiti rifiutati (in qualunque circostanza): delusione, paura di non essere accolto, paura di non essere considerato, paura dell’indifferenza, paura di non essere amato, paura di non essere compreso o comprendere ciò che viene comunicato, paura di essere tradito, sensazione di abbandono, paura di aver deluso, paura di rimanere solo, paura del giudizio!
C.: “la paura genera rabbia che può diventare odio e sfociare in azioni violente e/o estreme che NON si possono giustificare ma comprendere e provare a prevenire … se tutti provassimo ad assumerci la nostra parte di responsabilità!”
Ho chiesto al gruppo di concludere con una parola dedicata a Giulia e/o alla condivisone fatta insieme: conoscenza, fiducia, inconsapevolezza, riposa in pace, tristezza, dispiacere, giovinezza, vita, dolore e paura, incoscienza, amore, dolore, responsabilità!
Marilena
“Secondo me, queste cose avvengono a causa dei genitori, della cattiva educazione che ricevono.”
“Secondo me succede per gelosia, le persone entrano in un’ossessione e poi non capiscono più nulla.”
“È la gelosia eccessiva e il possesso la causa di tutto.”
Ho chiesto loro: da cosa viene la gelosia?
“Dall’insicurezza e dalla mancanza di fiducia. Dovremmo avere più fiducia nell’altra persona.”
“Bon Jovi ha fatto una canzone che si intitola ’Too much love”, è il troppo amore.”
Domando se si tratti di troppo amore o troppo desiderio.
“Troppo desiderio.”
“Secondo me, il problema è che si confonde il voler bene con l’amore, l’amore e il voler bene sono due cose diverse. Lei voleva essergli amica ma lui invece voleva altro. Lei gli voleva bene ma non lo amava e lui non lo ha accettato.”
“Ma perché… non capisco, lui diceva che senza di lei non poteva vivere ma poi la ha ammazzata… non capisco!”
“Perché lui ha pensato: se non sei mia, non sarai di nessun altro!”
“Io sono stato uno stalker, con la mia ex, per un po’ di tempo. Stavo malissimo, non mangiavo, non mi cambiavo i vestiti anche per tre settimane, avevo l’ossessione. Le mandavo sempre i messaggi e la controllavo.”
Provo a chiedere poi cosa è cambiato, qual è stato l’elemento che lo ha aiutato a uscirne?
“I miei genitori. Mi hanno detto: “guarda come sei combinato! Non mangi più, non ti prendi più cura di te!” E io da lì ho cominciato a accorgermi, c’è voluto un po’ di tempo. Poi ho chiamato un amico, gli ho chiesto di uscire, sono andato a una festa. Da lì mi sono come svegliato. Poi un giorno, non so neanche io come è successo, quando ho pensato a lei, non mi importava più. Sono stati gli altri ad aiutarmi, i genitori e gli amici. E ne sono uscito. Ci vogliono le altre persone, c’è bisogno dell’aiuto degli altri.”
Laura
Incontro alcune persone detenute che hanno commesso un reato di maltrattamento e parliamo di quello che sta succedendo oggi, ieri, in questo periodo storico.
Mi dicono che vorrebbero capire, così come stanno cercando di capire quello che è stato il loro, perché si sta diffondendo tanta violenza.
H., un ragazzo, dice che il magistrato gli ha rifiutato l’affidamento anche se la relazione era buona, ha fatto un buon percorso trattamentale, avrebbe un lavoro fuori e potrebbe tornare a mantenere i figli ma capisce che in questo momento c’è paura.
S., un’altra persona mi dice che secondo lui si dovrebbe cominciare a fare qualcosa a scuola, che si deve spiegare e che forse i percorsi che fanno loro con noi dovrebbero farli anche i ragazzi a scuola.
A., mi dice che spesso è la droga o l’alcol che poi porta a fare cose che non si devono fare.
È stato un incontro importante che ha aperto uno spazio di riflessione che probabilmente continuerà perché sono gli stessi partecipanti che oltre a un sentimento di vergogna hanno anche mostrato un sincero interesse nel voler capire.