L’Istituto Superiore di Sanità ha pubblicato, all’inizio di quest’anno, i dati della ricerca effettuata sul bullismo e sul cyberbullismo nel mondo degli adolescenti. È stato analizzato un campione di 6388 classi scolastiche sparse su tutto il territorio nazionale, nell’ambito di una rilevazione che rientra nella Sorveglianza HBSC – Health Behaviour in School-aged Children, giunta alla sua sesta edizione, e che per la prima volta coinvolge anche i 17enni, mentre le edizioni precedenti riguardavano solo ragazzi dagli 11 ai 15 anni.
I dati relativi all’incidenza di questo fenomeno sono sostanzialmente stabili. Secondo le risposte date dai ragazzi, sono circa il 15% quelli che sono stati vittime di bullismo o cyberbullismo.
Tale percentuale scende intorno al 6% alle scuole superiori.
Sono numeri alti o bassi? Come dobbiamo porci davanti a questi dati?
I numeri sono neutri; la lettura dipende dalle lenti culturali che vengono usate per codificarli.
Senza dubbio qualcuno trova questi numeri accettabili.
Il rischio è che una quota non superiore al 20% di ragazzi che subisce bullismo, numero che poi si abbassa fino al 6% nelle scuole superiori, possa essere ritenuta normale, addirittura inevitabile. Sono ragazzi in fin dei conti, sappiamo tutti che a quell’età c’è esuberanza, c’è il momento in cui ognuno forma la sua personalità e si ritaglia il suo spazio nel mondo anche sperimentando i suoi limiti. C’è tutta una retorica che riduce il bullismo a una delle dinamiche con cui i giovani devono misurarsi nella loro crescita, che considera queste condotte un rito di passaggio, quasi una sorta di iniziazione alla vita adulta.
Ma di che tipo di vita adulta stiamo parlando?
Di quella che ammette la violenza tra le modalità di relazione? Di una cultura disposta a chiudere un occhio di fronte alla violenza domestica? Di una società in cui la sopraffazione del più debole è ancora considerata una legge di natura?
La cultura in cui siamo ancora immersi è ontologicamente violenta. L’affermazione di sé, il desiderio di emergere legittima la sopraffazione dell’altro. Questa è la regola che vige nel mondo economico, nel mondo politico, nelle relazioni umane, infine.
Il bullismo, va ricordato, è uno dei molti modi in cui si declina la violenza di un essere umano contro un altro essere umano. Quello che la connota in modo specifico sono il contesto e le qualità personali dei protagonisti (adolescenti). Il bullismo non è diverso, per le dinamiche che assume, dal mobbing, dal nonnismo di caserma, o dal maltrattamento domestico, perché sono tutte situazioni in cui la violenza non è occasionale, ma sistematica, nel senso che la sopraffazione è la qualità specifica che assume la relazione umana.
La violenza assume mille volti, cambiano gli attori: cambia la fase della vita in cui essi si trovano ma il contagio, i miasmi, la sofferenza che causa, sono identici.
Certo, la violenza è perseguita per legge, ma anche se i codici penali sanzionano le violenze esplicite, possono poco contro una cultura che invece di includere, emargina e punisce.
C’è una diffusa ritrosia a riconoscere che la violenza non sorge dalla “cattiveria” dell’individuo “guasto”, ma è prodotta da cause e condizioni che la generano; cause e condizioni che hanno radici ben salde nella nostra società.
C’è ancora più ritrosia ad ammettere che non è sufficiente inasprire le pene contro i violenti per risanare la società.
Questo stesso sguardo miope è quello che non si accorge di come i nostri ragazzi si trovino in questo modello di società e, a giudicare dai dati della ricerca dell’Istituto Superiore della Sanità, malissimo.
Meno della metà degli adolescenti percepisce la propria salute come eccellente. A partire dai 13 anni, meno del 30% delle ragazze giudica la propria salute eccellente (la quota scende addirittura al 13% nelle 17enni, il che significa che 87 ragazze su 100 non stanno bene, capite?).
Quasi il 60% degli intervistati dichiara di soffrire di almeno 2 sintomi più di una volta alla settimana (mal di testa, mal di stomaco, mal di schiena, difficoltà ad addormentarsi, giramenti di testa, sentirsi giù di morale, sentirsi irritabili o di cattivo umore, sentirsi nervoso).
I numeri raggiungono percentuali ancora più allarmanti nel range tra i 15 e i 17 anni, con oltre l’80% di ragazzi sofferenti.
I dati del 2018 erano del 62%. Quindi la crescita del disagio è esponenziale.
Possiamo dare la colpa al Covid, che ormai è responsabile un po’ di tutto, ma il punto è che stiamo facendo pagare un prezzo insostenibile ai nostri figli (statisticamente più alle femmine che ai maschi ma forse è solo che sanno semplicemente leggere meglio le loro emozioni).
I numeri, fotografano una gioventù afflitta dalla sofferenza per un mondo che non sentono accogliente, né rassicurante.
Cambiare però si può, e si deve.
Noi siamo avanguardia in questo.
Liberation Prison Project non opera solo negli Istituti penitenziari, luoghi di sofferenza per antonomasia, ma sta estendendo la sua azione nelle scuole perché è in questi contesti – spesso difficili – che serve esserci.
Esserci a fare qualcosa che serve davvero.
Liberation Prison Project sta organizzando sessioni di incontri nelle scuole secondarie, al fine di diffondere maggiore consapevolezza nei nostri ragazzi.
I punti che possono trasformare la sofferenza dei ragazzi in consapevolezza sono la capacità di ascoltare, di ascoltarsi, di provare empatia e compassione per gli altri, e per noi stessi; conoscere il confine che separa un comportamento da un atto-reato; sapere l’importanza di costruire relazioni positive con gli altri, coltivare la gentilezza come forma di essere nel mondo.