Con grande piacere ospitiamo questo mese nella rubrica I Notturni la riflessione di Alessandro Venuto.
Alessandro è Liberation Prison Project, anche se forse gli operatori più “giovani” non lo conoscono. È uno dei fondatori dell’Associazione, c’è stato cioè in quel momento magico in cui qualcosa ancora non esiste ma si dà spazio alla sua visione, che poi diventerà un pensiero sempre più definito fino a concretizzarsi in un’azione.
Ecco le nostre azioni di oggi ci sono anche grazie a quello slancio pionieristico che ha generato uno “spazio del possibile” per Liberation Prison Project. Già Presidente di LPP, scrittore e speaker radiofonico, da anni si occupa della cura di persone con problemi di dipendenza attraverso il metodo della resilienza e attualmente infatti opera in una comunità.
Grazie Alessandro per questo intervento, per quel che hai fatto perché LPP nascesse e per la costante vicinanza. A presto!
Se c’è una qualità tra le molte per le quali viene ricordato Lama Yeshe è la gratitudine profonda che provava di fronte a ogni essere umano, come riporta anche Vicki Mackenzie nel suo libro Reincarnazione. È la stessa, stupita gratitudine che ho trovato ogni volta che ho portato un ospite esterno in carcere come volontario per Liberation Prison Project Italia, fosse Dario Fo, un lama tibetano, il monaco americano di tradizione giapponese AnShin Thomas. ‘’Ma tu come ci vedi?’’ era la domanda timida e gravida di significato che ponevano immancabilmente. Ed era espresso con una gratitudine profonda perché, chiunque fosse l’ospite, era lì a vedere questa parte negata della nostra umanità. Il male, il peccato, la colpa. ‘‘Dov’è la vostra parte oscura, fatemela vedere’’ chiedeva loro AnShin Thomas. ‘’E dov’è il Buddha? Non esiste parte oscura o seme di Buddha, sono solo idee della mente. Voi siete il Buddha, io, lo specchio, il pavimento’’ rispondeva. Si deve raggiungere il punto, sempre. Clean clear, per dirla con Lama Yeshe. ‘’La differenza tra noi e loro’’ mi ha detto una volta Khenrab Rinpoche, al nostro primo incontro a San Vittore, ‘’è che a noi non ci hanno ancora preso, a loro sì.’’ Sorrisi ma non capii, all’inizio. Ma si sorride sempre, e si finge di capire. Si sente dopo, quando crei un contatto con il reale. Quello fatto di sbarre, chiavi, lunghi corridoi, muri bianchi, celle piccole, guardie e ladri, occhi e mani, e allora capisci che come diceva Tiziano Terzani ognuno di noi è quello che sceglie di essere di volta in volta, potenziando alcune qualità a discapito di altre. Lasciamo il negativo e il positivo ad altri.
Per un po’ di tempo, ho avuto la fortuna di essere volontario per Liberation Prison Project Italia e di tenere gruppi di meditazione in carcere. Non eravamo organizzati come ora, ci provavamo, e questo era tutto. Ma funzionava, oggi come allora. Le persone, a contatto con la meditazione e praticando ogni giorno, cambiavano sotto i nostri occhi e persino l’atmosfera del reparto sembrava cambiare, così come cambiava il modo in cui il nostro gruppo veniva visto dalla polizia penitenziaria. Prima, quando dicevi che venivi per il Progetto Liberazione nella prigione, si rideva: ‘’attenzione che non sia liberazione dalla prigione, prego’’. Ridevo, ma non capivo. Poi siamo diventati “quelli della meditazione”, e sentivi che ti portavano rispetto. I meditatori in reparto facevano gruppo, creavano cultura, si vedevano e si aiutavano anche fuori dagli incontri.
Organizzammo concerti di musica irlandese, incontri con lama e persino con un frate francescano che cantava per la stessa etichetta dei Beatles: sì, perché sapere è gustare, come insegna il latino, e i sapori vanno differenziati ad arte. I nostri meditatori erano orgogliosi di condividere il progetto anche con chi non meditava ma godeva di un momento insieme, come durante il mandala organizzato a Milano Bollate e che ha mosso più di quattrocento persone che dall’esterno sono venute a goderne più centinaia di detenuti che ne hanno goduto dall’interno per quattro giorni. Magia di un contatto.
Recentemente sono stato invitato da una professoressa, Paola Russo, a incontrare i ragazzi di due classi dell’Itis Alessandro Volta di Trieste per un progetto sulla legalità a partire da alcune riflessioni sul mio libro La saggezza del lupo, edito dalla Montag, nel quale provavo a rispondere a una semplice domanda: se io finissi in carcere, persino a Milano Bollate, che cosa mi servirebbe per non uccidermi? E per vivere? Accettare tutto e non rifiutare nulla, si scrive nel tantra. Il libro era la mia risposta, con la storia di Luca che da affiliato a un’organizzazione criminale con base su Milano finisce a Bollate e incontra Liberation Prison Project Italia nella persona del monaco Thomas e la grande letteratura mondiale: meditazione e cultura. La bellezza salverà il mondo? Nel mio libro, provo a dire che ci si prova. Paola aveva avuto il libro grazie a Marika Del Zotti, che lavora per una realtà fondamentale per Bollate come il Consorzio dei Mille.
I ragazzi di Trieste, per prima cosa, erano curiosi: ottimo segno. Noi adulti, spesso, non lo siamo. Preferiamo risposte difensive che dubbi. Eppure, anche il Dalai Lama si è espresso sull’importanza del dubbio che porta a investigare, a dibattere. Chogyam Trungpa dice che nella scuola Kagyu si dubita di chi non ha dubbi e prende tutto come è, sono tipi che hanno qualcosa che non va.
Come sono i detenuti?, mi chiedono i ragazzi. Sono pericolosi? Hanno mai minacciato me o la mia famiglia? Penso a tutte le volte che li ho visti piangere, ridere, ringraziare, meditare in silenzio, sperare e dico di no, non lo sono. Non più di noi, comunque. Ma si devono comunque tenere limiti ben definiti, come in ogni relazione di aiuto. È importante. Non si deve confondere l’amorevole gentilezza con la stupidità, come dice Lama. O col protagonismo egoico, che è peggiore. Racconto loro di come una volontaria di un altro progetto si fece convincere a fare una telefonata una volta fuori da un detenuto, in apparenza innocua, e permise invece al resto del suo clan di darsi alla macchia. Quando dico loro che ho lavorato con i Protetti e spiego chi sono, non mi interrompono per dire che questa gente dovrebbe marcire in galera o essere uccisi e allora mi viene in mente quando Dario Fo ha gridato a San Vittore, ospitato da Liberation Prison Project Italia, ‘’San Francesco è uno di voi, è stato in carcere un anno’’ e quando propose di portare la Pietà del Rondanini lì, nella Casa circondariale che ospitò gli antifascisti Mike Buongiorno e Indro Montanelli e persino, parecchi anni dopo, come lui stesso ci raccontò, Roberto Vecchioni.
Quando mi chiedono come si diventa affiliati, racconto loro di uno dei miei corsisti che a 17 anni spara in faccia a un uomo senza nemmeno coprirsi il volto: così, si diventa affiliati. È identitario. Ci si sente impunibili e si cresce nel proprio mito di una diversa legalità delle mafie. Natura e cultura. E quanta fatica per tirarsene fuori. Ma il carcere può farlo e dopo anni, un giorno, mi sento chiamare per strada e me lo trovo sorridente che mi dice: ‘’sono in articolo 21, anche grazie al lavoro fatto con voi di Liberation Prison Project Italia’’. Penso alle parole di Lucia Castellano nel suo libro, Diritti e castighi, sulle paure di alcuni rispetto all’Articolo 21 come possibilità di evasione: “chi mi assicura che se faccio uscire i detenuti al mattino li rivedo alla sera?”. Tornano tutti, invece, coinvolti da un progetto che li vede protagonisti.
E ne ho visti altri, fuori, fermarsi con l’auto in mezzo alla strada con le quattro frecce o per Milano per ringraziare il Progetto per come ha cambiato loro la vita. La gratitudine, quindi, come qualità dei maestri. E dei semplici. Certo, molti dicono, ma se i reati di cui sono colpevoli li avessero fatti contro di te o la tua famiglia? È vero, sarebbe tutto diverso. Ma non è accaduto, e i volontari di Liberation Prison Project Italia si inseriscono nella visione di Lucia Castellano e Cosima Buccoliero di un carcere riabilitativo per davvero. Per gli altri, c’è la giustizia. Quando mi chiedono come nasce il libro, rispondo che è nato facendo il volontario per LPP e quando apro il file che mi ha inviato Maria Vaghi e leggo i dati di ciò che oggi il Progetto è e di ciò che fa mi commuovo e mi sento grato per il lavoro svolto da Lara Gatto e da tutti i volontari, per tutte le persone coinvolte, per tutti coloro che hanno aiutato, perché il libro nasce da lì, dal Progetto, da Tiziana Losa e ancora prima da Robina Courtin e da chi si mette a servizio del prossimo con gratitudine.
Ma come si combattono le mafie? Nel libro, non lo indico. No, perché dire che tocca ai giovani mi fa davvero arrabbiare quando ancora non si è capito quanto lo Stato traffichi con le nuove mafie. A molti non piacerebbe che Messina Denaro parlasse, soprattutto allo Stato, come mi ha garantito Enzo Ciconte, della commissione parlamentare anti-mafia.
Poi guardo i dati di LPP Italia e penso che si combattano anche così, in effetti. E lo dico, ai ragazzi. Coinvolgendosi di persona. Andando in carcere a parlare con chi ha voglia di cambiare. Il resto lo facciano magistrati e politici, se vogliono e possono. Una sola persona che cambia, come l’Illuminazione del Buddha racconta, è uno stravolgimento universale. I ragazzi sono attenti, capiscono che il carcere è una brutta storia come in Mare Fuori ma che è fatto da persone vere, alcune delle quali ci provano, ci provano davvero e questo è già molto.
‘‘We try’’, dice Lama Yeshe parlando della rinuncia e dei monaci. ‘’We try, and that’s all’’. Vale per tutti. L’incontro con i ragazzi mi ha fatto capire come il tema della legalità sia profondamente sentito e voluto, come ci sia fame e curiosità di qualcosa più concreto di valori asettici e quasi sempre sbugiardati, fame di prove concrete che si possa vivere in modo onesto e che se si sbaglia ci sia qualcuno, o qualcosa, che aiuti a prendere atto dell’errore e cambiare. Questo conta. Questo è reale. E credo che Liberation Prison Project Italia si occupi di questo.
Clean clear.